Il trauma del lockdown per le donne vittime di violenza e di tratta

Come abbiamo fatto nelle ultime settimane, continuiamo a raccontarvi come procede la vita nelle comunità del Centro Ambrosiano di Solidarietà. Abbiamo incontrato, virtualmente, Lucia Volpi ed Elena Tagliabue, rispettivamente responsabile e psicologa dell’Area Donne del CeAS.

“Le case rifugio del CeAS sono state e sono tuttora aperte, e operano al massimo della loro capienza. Ogni donna ha il suo spazio personale, un piccolo appartamento, e abbiamo individuato dei luoghi per un’eventuale quarantena, ma devo dire che finora l’isolamento è stato provvidenziale per salvaguardare dal contagio”, esordisce Lucia.

Fino al 4 maggio, infatti, le ospiti hanno rispettato il lockdown, tanto che persino la spesa è stata fatta dalle operatrici, online o con il supporto di alcune associazione di volontariato. Con l’avvio della fase 2 si è leggermente allentata la chiusura, ma al momento solo per brevi passeggiate.

Racconta Lucia: “Con le ospiti delle case rifugio – donne vittime di violenza o di tratta –  è stato fatto un importante lavoro di formazione, per dare loro tutte le informazioni sul contenimento della pandemia. Non è stato un lavoro facile, perché molte sono straniere e la lingua è stata una barriera non indifferente per comprendere a pieno la situazione e per adeguarvisi”. 

“Molte ragazze africane sono inoltre convinte che il covid sia la malattia dei bianchi e che loro non vengano toccate. Per questo abbiamo anche fatto degli incontri con la mediatrice culturale nella loro lingua, nei quali si è molto insistito nello spiegare che questo non è vero e per far capire loro che tutti ci possiamo ammalare”, aggiunge Elena.

Alla fatica di comprendere questa situazione inedita, per queste donne l’isolamento ha significato anche far tonare a galla vissuti dolorosi, come spiega la psicologa del CeAS: “Questo è stato un momento stressante per chiunque, figuriamoci per donne che arrivano da esperienze traumatiche. Molte hanno anche un vissuto di segregazione, di costrizione in casa e quindi l’isolamento ha riattivato i fantasmi del passato, soprattutto per le vittime di tratta, che hanno alle spalle veri e propri vissuti di schiavitù che tornano alla luce”.

Esperienze che hanno portato anche a una completa distruzione della capacità di autoprotezione, a maggior ragione nei confronti di un nemico apparentemente invisibile: per questo, per rispondere a queste difficoltà, sono stati attivati dei colloqui via Skype con la psicologa e le educatrici, così da avere la possibilità di vedersi. “Ogni volta ricordiamo loro quanto è importante tutelare se stesse e i propri bambini, anche davanti a un nemico che non si vede”, dice ancora Elena.

Il virus ha anche interrotto i percorsi verso l’autonomia di queste donne: “Al momento nessuna ospite lavorava, ma alcune erano impegnate in tirocini nel settore alberghiero o nella ristorazione, che sono stati interrotti. Anche se il centro antiviolenza risponde a tutte esigenze primarie, con l’interruzione dei tirocini le ospiti hanno perso una piccola retribuzione economica, per loro comunque importante. Tutte stavano facendo un percorso per essere consapevoli delle proprie capacità e autodeterminarsi, e adesso con questa situazione è stato fatto un passo indietro”, spiega Lucia. 

“Spesso, l’unica cosa che rimane a queste donne è pensare al futuro, crearsi aspettative e fantasie, ma ora non si riesce più a fare nemmeno quello, perché è tutto molto incerto”, aggiunge Elena.

Oltre alle donne, le case rifugio ospitano anche i loro bambini. Racconta Lucia: “Per loro è stato molto difficile dover stare chiusi in casa, perché come tutti i bambini hanno bisogno di spazi per giocare. Abbiamo quindi strutturato gli spazi esterni alle case rifugio, in modo che bambini potessero avere dei piccoli momenti di svago. È stato anche mantenuto un rapporto costante con la scuola, che ha fornito un pc così che i bambini potessero partecipare alla didattica a distanza, seguiti dalle educatrici che li hanno supportati nei compiti o nelle spiegazioni del caso”.

[Foto di Markus Winkler su Unsplash]

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