Nato nel 1986 per la lotta contro l’eroina, oggi si occupa di persone con diverse dipendenze e altre fragilità
di Giuseppe Pipitone
In principio fu l’eroina. A Milano c’era un mare di eroina. Una dose? Bastavano cinquemila lire. All’inizio. Poi, come in tutte le economie di mercato, l’aumento della domanda ha fatto subito alzare il costo dell’offerta. Le cinquemila lire sono diventate presto cinquanta. Costava cara l’eroina a Milano, eppure era ovunque: nei parchi, agli angoli delle strade, persino sui tram. “C’era la gente che si bucava tra una macchina e l’altra”, racconta Massimo, uno di quelli che c’era. Sin dall’inizio.
Ed è dall’inizio che parte questo racconto, dagli anni ’70, quando sull’onda della controcultura hippie i ragazzi italiani cominciano a fumare, a farsi le canne. “All’epoca non si beveva molto alcol, contrariamente a come si fa oggi. Il passaggio diretto all’eroina avveniva quasi subito e spesso per caso. Io ho cominciato nel 1976: all’inizio non volevo, però poi abbiamo iniziato, anche per farci accettare dal gruppo di amici”, dice Massimo, occhi lucidi di chi deve riavvolgere indietro il suo personale nastro dei ricordi. Ed è un’operazione dolorosa. “All’inizio non ti accorgevi di cosa stavi facendo, anche perché sembrava andare tutto bene, benissimo”. Talmente bene che a quell’iniziale periodo di benessere avevano dato un nome: “La chiamavano luna di miele”.
Questa però non è una storia di innamorati. Questa è una storia che comincia con una tragedia. Massimo la racconta così: “A un certo punto la bestia ti entra dentro e ti ruba l’anima, ti ruba il cuore, ti ruba al mente”. Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 l’Italia intera si riempie di giovani ai quali l’eroina sta rubando tutto. I ragazzi che si fanno si moltiplicano, in poco tempo sono ovunque, ad ogni ora del giorno e della notte: litigano coi genitori, scappano di casa, spesso si trovano a vivere per strada, alcuni rubano per mantenere la propria dipendenza, altri fanno pure di peggio. “C’era chi si prostituiva. Salivi sui tram e vedevi gente che si faceva. Ma pure se guardavi tra le macchine parcheggiate per strada, nei parchi: l’eroina a Milano era ovunque”.
Che cosa faceva lo Stato per provare a risolvere questa situazione? “Nulla, niente di niente. Solo per avere il metadone ci volevano mesi”. È per questo motivo che, piano piano, in varie parti del Paese cominciano a spuntare le prime comunità che hanno come obiettivo quello di aiutare i tossicodipendenti. Sono esperienze pionieristiche e spontanee: l’obiettivo è costringere i ragazzi a smettere di farsi. “Io all’epoca ero stato a Londra, lì c’era la droga migliore disponibile in tutta Europa. Ero arrivato al limite ed ero disperato. Non ne potevo più, stavo per mollare, per abbandonarmi definitivamente quando a un certo punto i miei mi dissero che stavano aprendo questa comunità a Milano”.

1986 nasce il CeAS – Centro Ambrosiano di Solidarietà
È il 1986 e a Milano nasce il Centro Ambrosiano di Solidarietà. A crearlo è il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, che prova così a rispondere a una disperata richiesta di aiuto che arrivava ogni giorno da decine di famiglie. “La notizia dell’apertura di questo nuovo centro mi aveva entusiasmato, mi sentivo partecipe dell’inizio di qualcosa di nuovo”, racconta Massimo, che oggi è del CeAS è uno dei dipendenti. Da molti anni fa il contabile, si occupa di numeri, fatture, tasse: ma qui era arrivato da ospite. Uno dei primi dieci ospiti del Centro Ambrosiano di Solidarietà.
“All’epoca era tutto molto diverso: era una comunità solo per tossicodipendenti. C’era un’accoglienza che durava più o meno un anno: nella prima sede in piazza Santa Maria alla Fontana andavi accompagnato da un familiare”. Era una sorta di day hospital: andavi al mattino alle 8, uscivi alle 5 del pomeriggio. “Inizialmente ti facevano dei colloqui, poi passavi all’accoglienza. Facevamo dei gruppi, ognuno parlava dei suoi problemi. E poi ovviamente lavoravamo perché dovevamo rimettere in sesto la struttura. Dopo di ché si passava alla comunità, che era a Varese, a Cantello precisamente, la zona degli asparagi”.
Le origini
Il CeAS funziona e presto moltiplica le sue sedi. “Per me quel periodo è stato fondamentale anche se è stata dura: non si lavorava solo con la forza delle braccia, ma soprattutto sul comportamento, con la mente. Gli operatori ci urlavano in faccia: era una sorta di terapia d’urto che serviva a far crollare le nostre resistenze”. Sono i primi tempi: in quel momento il problema non è curare il tossico, il problema è combattere la droga. Ovunque si parla sempre e solo di lotta alla droga, mai di lotta alle dipendenze. “Bisognava comunque crederci, se non ci credevi, se non eri convinto, non ne saresti mai potuto uscire”, dice Massimo. Che è tra i primi a passare dall’altra parte: da paziente diventa a sua volta operatore. “All’inizio facevo i primi colloqui con i nuovi aspiranti ospiti. Gli dicevo: io ero come te, ora sto bene. Per un tossico l’esempio è importantissimo”.
Massimo si riprende se stesso: trova un lavoro, fa il ragioniere in un’azienda di materiale elettrico. Dura qualche anno: poi gli propongono di tornare al CeAS, questa volta come contabile. 35 anni dopo è ancora qui: oggi, oltre che uno dei dipendenti della struttura, è anche la memoria storica del centro. “Una cosa che rifarei se potessi tornare indietro? Chiedere aiuto, senza dubbio”.
Alisei e il cambio di paradigma
Il CeAS nel frattempo è cambiato, si è evoluto. Nei primi anni ’90 la sede è stata spostata al Parco Lambro, nord est di Milano, in una cascina concessa dal comune, che è stata piano piano restaurata. Il primo servizio ad aprire è sempre quello dedicato alle persone con dipendenze: la comunità la chiamano Alisei, come i cosiddetti “venti dei viaggiatori”, quelli che nell’Oceano Atlantico spirano costantemente verso Ovest.
“Abbiamo voluto usare una metafora marinesca: significa affidarci a un vento che però non ci porta alla deriva ma ci conduce verso un obiettivo”, racconta Graziano Valera, che dal 2003 dirige Alisei. Entrato al CeAS nel 1996, Valera ha fatto parte della prima generazione di educatori professionali. “Quando sono arrivato io – ricorda – l’eroina era un fenomeno pandemico. A differenza della narrazione che vede San Patrignano come unica risposta pionieristica all’emergenza, all’epoca c’erano moltissimi interventi differenziati per stile, dimensioni e filosofia di intervento. Il CeAS ha una matrice di origine cattolico sociale e quindi una impostazione molto finalizzata al recupero del tossicodipendente con una forte impronta morale”.
Il fatto che a volere la nascita del Centro Ambrosiano di Solidarietà sia stato l’allora arcivescovo Martini non è solo un tratto storico. “La filosofia – prosegue Valera – era improntata sulla lotta alla droga. La famiglia inviava un soggetto problematico e si aspettava indietro una persona tornata integra”.
È con la formazione della prima generazione di educatori professionali che si ha un cambio di paradigma: “Abbiamo spostato il focus dell’intervento: si è passati dalla lotta al nemico droga a cercare di coinvolgere la persona per renderla protagonista nel suo percorso di recupero. Gli ospiti devono chiedersi: che cosa mi lega così tanto a questa sostanza problematica al punto di dover trascorrere un momento significativo della mia vita in un luogo così?”. Non è solo una questione di approccio ma di evoluzione del metodo: “È la cosiddetta contaminazione dei saperi: la pedagogia incontra il sapere medico, il discorso diventa più complesso ma anche più efficace. La persona vuole cambiare e mette in discussione delle parti di sé problematiche”.

Parallelamente, però, cambia anche altro: a partire dalla fine degli anni ’90 pure il mondo della droga comincia a cambiare. “Non esiste più l’eroinomane puro – ricostruisce Valera – È cambiato il mercato, sia per fenomeni di macro economia, come per esempio la situazioni in Messico e l’Afghanistan. Ma anche per questioni micro economiche: non esiste più lo spacciatore di piazza. Moltissimi consumatori oggi sono anche loro spacciatori. Tenendo conto di tutte queste cose, il perseguimento della salute non è più risolvere la malattia ma approdare alla concezione della vita come una perenne cura di sé. E quindi anche costruire una rete che ti supporti nelle tue fasi evolutive”.
La svolta arriva quando l’associazione degli psichiatri americani smette di considerare la tossicodipendenza come un vizio morale da cui uscire ma comincia a definirla come una patologia cronica. “Abbiamo modificato completamente il nostro approccio. Prima era una comunità con molti ospiti, fino a 70 persone. Ora arriviamo al massimo a 10. Al centro non c’è più la lotta alla droga, ma la cura della persona che deve sentirsi protagonista della propria guarigione”.
La risposta dello Stato
E mentre il recupero della tossicodipendenza è diventato sempre più professionalizzato, anche lo Stato ha cominciato a rispondere. “Io credo che un grosso spartiacque sia stata la normativa sull’accreditamento”, spiega Claudia Polli, responsabile dell’Area Dipendenze, al CeAS dalla fine degli anni ’90. “In pratica è arrivata una risposta statale che si è espressa con una legislazione nazionale e poi con un’applicazione regionale che hanno messo un po’ a sistema ciò che già nei fatti esisteva. Sono arrivate le norme, delle richieste di determinati standard di servizio, si è avviato un percorso che ha professionalizzato il lavoro. Per dirlo in una frase: il recupero dei tossicodipendenti è diventato un servizio pubblico”.
Non si tratta, però, solo di norme e burocrazia ma anche di una questione filosofica. “Per esempio il CeAS ha scelto di accreditarsi come struttura specialistica per la doppia diagnosi e dunque di accogliere persone che oltre ad avere un problema di dipendenze hanno anche una situazione compromessa da un punto di vista psicologico-psichiatrico: è questa è appunto una declinazione filosofica del recupero”, continua Polli.
La doppia diagnosi
Gli anni 2000 vedono una profonda mutazione dei bisogni sociali: al dramma della tossicodipendenza si affiancano altri malesseri della società. E il CeAS si evolve per aiutare anche i “nuovi fragili”: dall’accoglienza delle famiglie rom, ai migranti, alle donne vittime di tratta, ai minori non accompagnati. E poi, appunto, c’è chi ha un disagio psichico.
“La patologia è solo un piccolo pezzettino che caratterizza la persona”, spiega Consuelo Possenti, coordinatrice della comunità che ospita persone con disagio psichico all’interno della Villetta San Gregorio. Possenti fa un esempio pratico: “Funziona come quando vai dal fisioterapista: tu hai una spalla che non funziona bene, io tratto quello spalla ma nel frattempo tratto tutta la muscolatura intorno affinché possa sostenere la spalla che non funziona bene. Il tecnico della riabilitazione psichiatrica fa la stessa cosa con la vita delle persone. La patologia diventa un pezzettino che non funziona ma poi c’è tutto un corollario di situazioni intorno che io posso rafforzare, per permettere alla persona per cercare di avere una vita il più soddisfacente possibile”.

Il dramma del Covid
35 anni dopo la sua fondazione il Centro Ambrosiano di Solidarietà è diventato quello che qui chiamano “villaggio solidale”: ospita e accompagna verso l’autonomia persone con diverse fragilità. Un obiettivo al quale lavorano operatori, psicologi, pedagogisti, medici, infermieri. E che è stato fortemente influenzato dall’ultima grande tragedia contemporanea: la pandemia.
“Da quando è scoppiato il Covid abbiamo avuto molti più abbandoni, persone che hanno lasciato il percorso che stavano facendo all’interno della comunità”, racconta Polli. “Si sono registrate difficoltà da parte dei servizi sociali a intercettare il bisogno degli utenti e in questo modo inviarli alla comunità”, aggiunge Valera.
A cosa è dovuto questo ritardo? Solo al lockdown che ha paralizzato le strutture pubbliche? “No, semplicemente con la pandemia le persone sono più depresse, più isolate. Pensano: quando si sarà superato questo momento critico, solo allora andrò in comunità. È come se la crisi avesse in qualche modo congelato la volontà di chi vuole provare a curarsi”.
Parallelamente, però, il lockdown ha fatto esplodere nuovi tipi dipendenze: “È aumentato il fenomeno delle consegne di sostanze stupefacenti a domicilio, i vari Glovo che vediamo in giro spesso consegnano cose molto diverse dal cibo”, spiega sempre il coordinatore della comunità Alisei. Che poi pone l’accento su un’altra emergenza: “Stiamo assistendo alla crescita della dipendenza dall’alcol. Notiamo una diffusione di birre a basso costo ma ad alta gradazione alcolica”. Costano poco, ma ti ubriacano velocemente. Valera spiega quello che sta succedendo: “Capita di incontrare l’ex utente che ha lasciato la comunità e sentirgli dire: sto bene, non mi faccio più. Ma magari ha in mano una di quelle birre, anche se sono solo le 4 del pomeriggio”.
E se la pandemia ha allontanato i soggetti fragili dal percorso che li conduce alla comunità, ha avuto un effetto deleterio sugli ospiti che soffrono di patologia psichiche e dunque sono ospiti fissi della struttura. “Tra chi è rimasto qui durante il lockdown abbiamo registrato una sensazione di sospensione, di paura”, racconta Possenti. “Si è parlato molto dell’emergenza nelle Rsa, ma durante la pandemia – continua – tutte le comunità hanno avuto problemi: da quelle per soggetti con disabilità a quelle per tossicodipendenti fino a quelle che si occupano soggetti affetti da problemi psichici. Mentre fuori si assiste a un lento ritorno alla normalità, per loro l’emergenza non è finita”.