Alla fine dello scorso anno Graziano Valera – responsabile di “Radici”, la struttura del Centro Ambrosiano di Solidarietà dedicata ai minori stranieri non accompagnati – ha raggiunto Trieste, punto di arrivo della cosiddetta “rotta balcanica” dei migranti.
Alla fine dello scorso anno Graziano Valera – responsabile di “Radici”, la struttura del Centro Ambrosiano di Solidarietà dedicata ai minori stranieri non accompagnati – ha raggiunto Trieste, punto di arrivo della cosiddetta “rotta balcanica” dei migranti. Qui opera “Linea d’Ombra”, organizzazione di volontariato che supporta le persone in movimento a Trieste e sulle rotte balcaniche dal 2019.
Ecco il suo racconto di questo viaggio, in cui ha portato con sé anche un pezzetto del CeAS.
L’idea

Sono i primi giorni di dicembre 2023, quando a Milano incontro per un aperitivo Luca, carissimo vecchio compagno di rugby di Sesto San Giovanni, e la sua compagna Fiammetta.
Hanno un sogno che si sta trasformando in un progetto: vogliono raggiungere Trieste, dove tutte le sere, dal 2019, l’associazione Linea d’Ombra incontra i profughi che riescono a superare i confini attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”.
Nel mio ruolo di coordinatore di un’équipe che accoglie e accompagna giovani minori stranieri non accompagnati a Milano, ho raccolto spesso storie di ragazzi che hanno percorso quella rotta: ho sentito storie di torture e respingimenti brutali da parte delle polizie dei paesi attraversati; di tempi lunghissimi e di un orizzonte che non si rivela mai; di speculatori che approfittano della tua debolezza.
Ho pensato che sarebbe stato un bene andare a vedere i luoghi che gli occhi dei nostri ospiti hanno visto appena arrivati in Italia: a quel punto ho voluto sostenere il viaggio di Luca e Fiammetta mettendo in gioco il CeAS. Ho chiesto all’associazione la disponibilità del furgone per tre giorni. Avrei aggiunto così un paio di metri cubi di materiale per Trieste. Anche grazie alla sensibilità e disponibilità del presidente Giovanni Cavedon questo è stato possibile.
Prima tappa: lo Spazio di Mutuo Soccorso

Ciò che si è verificato in seguito è stato un piccolo straordinario esempio di come può essere generativa un’azione solidale: la prima tappa di raccolta di coperte, vestiti e sacchi a pelo è stata presso lo Spazio di Mutuo Soccorso di piazza Stuparich, a Milano. Un giovedì sera ci siamo conosciuti, hanno attivato energie ed entusiasmo e grazie a un magazzino di raccolta e distribuzione che gestiscono a favore degli abitanti della zona abbiamo raccolto quattro scatoloni di materiale per Trieste.
Come spesso succede quando gli incontri sono positivi lasciano intravedere possibilità e connessioni: SMS propone corsi di italiano, iniziative sociali, politiche e culturali con lo spirito e la pratica dell’autogestione. Hanno un’assemblea permanente, il giovedì sera una cena popolare che aggrega e promuove socialità e mutuo aiuto. Ho mangiato una pizza marocchina con impasto con la curcuma, ho visitato i locali e i cortili del Centro.
Seconda tappa: Mondo Bambino e Decathlon. Claudio, Veronica, Daniele.

Quando un’idea è significativa genera creatività e impegno. Incontro Claudio Mattiolo, presidente dell’Associazione Mondo Bambino e già consigliere del CeAS. Ha saputo dell’iniziativa e mi chiede come può contribuire. Da Trieste chiedono di provare a reperire vestiti e attrezzature nuove, che possano asciugare in fretta perché il Silos – il luogo dove ogni notte dormono decine di migranti – è un luogo estremamente freddo e umido.
Faccio un giro alla Decathlon di Segrate per farmi un’idea sui prezzi e gli articoli più adatti. Parlo con Daniele, un giovane lavoratore che mi aiuta nella ricerca con tempo ed impegno.
Il giorno dopo sono alla Decathlon con Claudio, acquistiamo più di 1.000 euro in felpe, pantaloni della tuta, zainetti. Veronica, capo negozio, applica uno sconto immediato del 10% e ci dà una mano a sistemare il materiale sul furgone. Daniele, quel giorno a casa malato, mi comunica che lui e un collega hanno deciso di contribuire con altri 100 euro di donazione a titolo personale. Utile dire che si tratta di contributi inattesi e anche per questo preziosissimi.
Terza tappa: la Caritas di Cologno Monzese

A stretto giro di contatti veloci, siamo riusciti ad aggiungere valore e consistenza ai due metri cubi di aiuti verso Trieste: Piero, che conosco da anni attraverso il CeAS, mi dice che in parrocchia a Cologno Monzese hanno molti pacchi dono in generi alimentari e diversi scatoloni di vestiti. Panettoni, cioccolata, datteri e biscotti sono stati molto apprezzati a Trieste: zuccheri ideali con cui fare colazione, energia pura, per di più di alta qualità. Anche le coperte, le giacche, i maglioni sono molto apprezzati.
Venerdì 23 mattina accompagno Ibrahim in provincia di Bergamo, a casa sua, dove comincia la sua nuova vita di lavoratore in piena autonomia. È un giovane egiziano che ha concluso il percorso a Radici. Gli parlo del progetto Trieste e volentieri, con un amico, sarà con me a caricare gli aiuti della Caritas.
Quarta tappa: Trieste, mercoledì 27 dicembre
Arriviamo a Trieste la sera, scarichiamo i due furgoni presso la sede di Rifondazione Comunista aiutati dal Clan di un gruppo scout triestino.
I furgoni li parcheggiamo poi proprio di fianco al Silos, dove si rifugiano decine di persone migranti arrivate a Trieste. Sono perlopiù giovani maschi dal Pakistan, Afghanistan, Iraq. Ma anche di famiglie curde, nepalesi, mongole… Un grande pezzo di umanità in transito: i piedi distrutti dal cammino, la fame e il freddo nel corpo, tanta paura e stress accumulati e il grandissimo bisogno di riposare e sentirsi almeno per un momento accolti.





Al Silos – un’antica struttura nata come magazzino accanto alla stazione; nel 1943 durante l’occupazione nazista era anche un luogo di concentramento (Sammellager) per le persone destinate ai campi di sterminio di Aushwitz e Buchenwald – i migranti vivono in condizioni orribili. A 200 metri da lì, in piazza Libertà, ogni sera alle 19 i volontari dell’associazione Linea d’Ombra distribuiscono vestiti e cibo e offrono cure mediche.


Abbiamo appuntamento con Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, i due coniugi che nel 2019 hanno iniziato questo vero e proprio rito di solidarietà, aggregando in questa azione le energie migliori della città e scatenando ostilità e disprezzo nella gran parte che decide di rimanere chiusa, sorda e cieca. Lorena viene da Pordenone, è psicologa psicoterapeuta con una lunga storia di servizio a Bologna con le donne vittime di violenza. Gian Andrea è un professore di italiano e storia in pensione, scrittore e saggista.
La piazza è una vera sorpresa: da un lato si gioca a pallavolo, si ascolta musica e si parla. Sull’altro lato le panchine sono occupate da chi si occupa della distribuzione di cibo e bevande calde (coadiuvati da un gruppo scout e volontari), da chi svolge visite mediche (medici ed infermieri volontari), da chi si occupa di distribuire vestiti, tende, zaini e coperte.
Qui Fiammetta, che di professione fa la dentista, assiste chi lamenta mal di denti e necessita cure. Naturalmente è molto difficile con un “kit da campo” offrire prestazioni risolutive ma, come ci ricorda Lorena, è il gesto di cura che fa sentire le persone accolte, ascoltate, pensate in quanto esseri umani. La prescrizione di un antibiotico, due righe al collega che approfondirà diagnosi e cure adeguate, sono il simbolo di un’attenzione e dell’incoraggiamento ad affrontare insieme i problemi.


Le persone sono i loro corpi: i gesti di cura rimettono al centro la prossimità tra esseri umani al di là dei confini degli Stati, delle ideologie, delle differenze di provenienza o destinazione.
La sera di mercoledì 27 andiamo a dormire stanchissimi nei nostri furgoni; dal Silos fino a tarda ora si sentono voci, rumori di chi si sistema per la notte, un ragazzo ascolta la lettura del Corano.
Quinta tappa: l’altra Trieste. La storia, le storie, le arterie profonde di questo mondo – giovedì 28/12
Conosciamo Dario, un settantenne triestino che ha sempre lavorato in Jugoslavia e che spesso è in piazza a dare una mano. Ha voglia di raccontare di un mondo che non c’è più, di una città che ha sempre rappresentato la patria di moltitudini: ci sono gli ebrei, che fino al 1938 erano più di 5.000, possedevano importanti azioni nelle imprese assicurative e finanziarie. La sinagoga è una delle più grandi e importanti dell’occidente. Dopo il 1945 gli ebrei in città erano 500, la maggior parte deportati, gli altri emigrati in Israele. Ci sono i serbi, con la stupenda cattedrale serbo-ortodossa; ci sono i greci, ci sono stati gli sloveni bianchi e quelli rossi, ogni altura qui rappresenta un pezzo di appartenenza comune che in un istante può suscitare una pretesa di supremazia o rivendicazione. C’è naturalmente la Trieste austroungarica, ma anche quella di San Giusto e del suo quartiere medioevale. C’è l’anfiteatro romano. C’è la città del mare e dell’orizzonte di barche, marinai e pescatori, che immediatamente si fa città di montagna, con il Carso che cinge la città. La montagna separa e mette in comunicazione, con confini da sempre porosi e friabili.


C’è la Trieste fascista, della Piazza Unità d’Italia e del proclama delle leggi razziali del 1938. La mattina di giovedì 28 andiamo alla Risiera di San Sabba, Polizeihaftlager (campo di detenzione e polizia nazifascista, attivo per i prigionieri politici e gli ebrei dopo il 1943). È una tappa doverosa, siamo convinti che per comprendere e leggere le dinamiche di oggi sia necessario guardare nel buio del nostro passato. Oltre ai prigionieri destinati ad essere uccisi o deportati, vi furono imprigionati anche diversi civili catturati nei rastrellamenti o destinati al lavoro forzato. Le vittime (stimate fra le 3.000 e le 5.000, sulla scorta delle testimonianze raccolte) venivano fucilate, uccise con un colpo di mazza alla nuca, impiccate oppure avvelenate con i gas di scarico di furgoni appositamente attrezzati. Per la frequenza e finalità di tali pratiche nel campo, volte anche alla eliminazione dell’intera popolazione ebraica di Trieste, la risiera di San Sabba viene anche definita l’unico campo di sterminio istituito in Italia. Del lager faceva parte un forno crematorio, di concezione rudimentale, che veniva utilizzato per bruciare i cadaveri.
Una prossima volta l’amico Mathias Souchu, con cui pranziamo e che conosce lati segreti della città, ci condurrà a vedere la Trieste dell’antipsichiatria, dell’ex ospedale rivoluzionato da Basaglia a scoprire inquietanti similitudini (anche architettoniche): quando si concentra in un non luogo la sofferenza, la maggior parte delle persone non vede e non si fa carico.
Giovedì 28 – sera

Si torna in piazza, e ancora ci colpiscono l’allegria, la voglia di giocare, il bisogno di parlare delle persone. Mi viene in mente Gian Andrea Franchi quando, nel suo bellissimo libro “Il diritto di Antigone. Appunti per una filosofia politica: a partire dai corpi migranti” (Ombre Corte 2022), sostiene che “il primo riferimento per definire la cura è l’infanzia. Nell’infanzia – la condizione di chi è ancora senza parola, ci chi senza cura non può né vivere né sopravvivere – si coglie appieno la radice relazionale della condizione corporea. Si comprende che da questa derivano la dipendenza, l’inermità, la precarietà”. Come se riconoscendosi reciprocamente nel bisogno di relazione si potesse finalmente liberare la gioia primordiale della libertà di gioco, di scambio. Gioia espressa nelle danze, negli abbracci, nei massaggi ai piedi, nei canti.
C’è una parola che i profughi usano quando descrivono il loro viaggio: “the game” Un riferimento all’azzardo, al fatto che sai come comincia ma non puoi scommettere su come andrà a finire. Psicologicamente è una concezione che ti permette di affrontare le sfide, di non fermarti mai, perché ci sarà sempre un altro ostacolo da affrontare. Finché sei nel game, non ti puoi permettere di rilassarti.
La piazza di Trieste è sentire che si può anche solo per poco dimenticarsi del game per stare nel cerchio di un’umanità che canta con te, mangia, si cura, si ricorda di te.
Sesta tappa. Il ritorno – venerdì 29 – il concetto di Heimat
Ci siamo salutati con affetto, con l’impegno di saldare queste connessioni potenti e generative. Vorremmo invitare Lorena e Gian Andrea a Milano, magari con l’idea di promuovere il suo libro e costruire nuove relazioni.
Venerdì con Luca e Fiammetta l’idea era di fare tappa al castello di Miramare, per poi prendere l’autostrada. Ma avevo un bisogno di silenzio e solitudine, anche per sedimentare un po’ delle emozioni di questi giorni. Ci siamo abbracciati e sono partito alla volta di Milano. Ma sentivo che mancava una tappa.
Sono uscito al casello di Redipuglia. La giornata era piuttosto cupa, il cielo bianco e le colline grigie. A Redipuglia c’è il sacrario dei caduti della prima guerra mondiale. Una costruzione gigantesca, di pietra carsica, che occupa il fianco di una collina ospitando le salme di centomila soldati italiani. Sono entrato in punta di piedi, non c’erano visitatori se non qualche solitario. La retorica fascista del sacrario è odiosa e tracotante, non c’è spazio per la pena ma quasi solo per le virtù eroiche per la Patria. Centomila ragazzi che gli Stati-Nazione hanno mandato a combattere contro altri ragazzi nelle stesse condizioni: contadini, studenti, operai; corpi straziati nelle trincee dal cannone, dalla febbre, dal gas. Ragazzi che avevano nel cuore una propria casa, una ragazza, un mestiere.
Qui su questa collina sento che si chiude un cerchio, non posso non pensare ai morti ed ai corpi sofferenti di chi è costretto a cercare altrove il proprio “stare nel mondo”, la propria “Heimat”.
Concludo con una lunga citazione che mi ha fatto molto riflettere. Si tratta del lavoro di una giovane fumettista altoatesina (guarda un po’, un’altra zona “di confine”):
“Alcuni vocabolari specificano che Heimat è un luogo “wo man sich zuhause fulth”, dove ci si sente a casa. Quindi Heimat è un sentimento? Non devi essere nato nella Heimat, a volte puoi sceglierla, così come puoi scegliere di andartene. A differenza della patria, la Heimat non va difesa. Si può però custodire, come un pensiero, un ricordo condiviso, un piccolo segreto. È una confidenza sussurrata all’orecchio, non uno slogan sbraitato con rabbia. È una dolce voce che intona una ninna nanna. Non è il fumo che esce dalla canna di un fucile, ma quello che sale dalle pentole in cucina. Non è una divisa, ma un grembiule sporco di sugo e di terra. Non è un territorio da recintare, ma un orto da coltivare”. (Silvia Baccanti, da “Internazionale”, dicembre 2023)